Abbiamo incontrato Edith Bruck, scrittrice che nei suoi libri ha denunciato gli strazi vissuti nella Shoah.

di Ester Campese

Ci accoglie nel suo salotto con grande disponibilità. Una donna piena di energia e instancabile testimone che chiama le cose con il proprio nome, con la schiettezza di chi ha saputo superare l’inferno. Ha sempre avuto fin da piccola una particolare sensibilità per le ingiustizie e anche da grande ha posto attenzione per i così detti “diversi” denunciandone le sofferenze, come nel film per la TV “Nani come noi” che andò in onda su RAI3. Fin da piccola si è resa conto di vivere in un mondo che sentiva iniquo e discriminatorio, oltre che pieno di quella cattiveria umana che talvolta sa infliggere infinite crudeltà. Ci racconta anche di alcuni aspetti più privati della sua vita e con grande garbo tratteggia anche il suo amore per il marito Nelo Risi.

Edith Bruck

In questo suo percorso di narrazione e di memoria, ci spiega che incontra tanti giovani che non sanno la storia, che non ne conoscono le piene verità. Per cui con instancabile pazienza corregge anche quelle informazioni che la storia stessa ha consegnato in modo errato. Spiega così la sua esperienza che ha grande valore anche perché testimone diretta. Ad esempio rammenta di come dal suo villaggio furono i gendarmi fascisti ungheresi a portarli via, e non i tedeschi. Il primo tedesco – prosegue nel suo racconto – lo vide per la prima volta giunta al lager.

Questa poca conoscenza dei fatti è dovuta anche alla negazione, che iniziò da subito, modificandone la storia già mentre i fatti accadevano, mistificandoli e tentando di rimuovere in tutti i modi ciò che era accaduto e stava accadendo. Nei primi momenti dopo la guerra, gli ebrei non vennero nemmeno accolti, quasi non li si voleva vedere. Fu quindi anche questa una grande delusione per chi già aveva subito gli orrori di quella guerra.

Edith Bruck sa l’importanza di trasferire ciò che è accaduto.

Edith Bruck sa quanto sia importante trasferire ciò che è accaduto realmente, anche ai giovani, anche nelle scuole. Dai giovani riceve un grande riscontro e consapevolezza. Questo è consolante in quanto ciò che è avvenuto, che accade e che accadrà nel futuro, riguarda tutti. In questo mondo globalizzato tutto è vicino, dalla salute alle guerre, dal bene al male.

Dai giovani adolescenti riceve tantissimi scritti. Riscontra come purtroppo oggi ci sia poco dialogo tra genitori e figli, a tutte le latitudini nel mondo. Di contro nemmeno gli anziani, una volta considerati i saggi, oggi sono più ascoltati, non avendo più ne voce, ne spazio. Per cui diventa davvero importante testimoniare un passato così cruento. Questo era un pensiero che anche Primo Levi aveva, il timore di un appiattimento dei fatti, di memorie che forse rimarranno nel futuro solo in qualche Museo che poco dirà.

Non si sottrae Edith Bruck nemmeno ad affrontare il tema dell’attale guerra in Ucraina e sottolinea quanto sia stato indegno ed incauto da parte del Presidente Ucraino fare il paragone di questo loro periodo bellico con la Shoah. Sui giornali, sul tema, c’è stata infatti una decisa presa di posizione ufficiale anche da parte del governo Israeliano.

Le cinque luci che le diedero la forza di sopravvivere

Edith Bruck

Ha ripercorso anche i cinque episodi, le cinque luci come le chiama Edith, che le hanno dato la forza dei piccoli grandi miracoli per affrontare l’inaffrontabile e sopravvivere. La prima luce fu un gesto di pietà umana da parte di un soldato tedesco, un gesto positivo nell’inferno più totale, che le sussurrò e poi la spinse nella fila destinata ai prigionieri verso i campi di concentramento e non subito alle camere a gas.
Il secondo miracoloso episodio avvenne nelle cucine del campo di concentramento di Dachau, dove il cuoco le chiese in tedesco, come ti chiami. Per un prigioniero con la testa rasata, una palandrana grigia e null’altro, considerato solo come un numero, questa domanda restituiva dignità umana e la dimensione di una persona. Dal taschino il cuoco estrasse un piccolo pettinino e lo donò alla piccola Edith. Con questo gesto le regalò non una luce, ma un faro gigante, rappresentandole la bontà umana. Per cui restituiva speranza e forza per lottare e vivere. L’ulteriore episodio che le è rimasto impresso è stata una gavetta, sbattuta sul petto, nel cui fondo erano rimasti tracce di marmellata. Quel cibo era qualcosa di immenso che rappresentava la vita. Anche un misero guanto bucato, gettatole da un soldato a Kaufering, rappresentò la protezione dal freddo e quel buco era pieno di vita.

La marcia della morte

La crudeltà massima fu la marcia della morte fatta di mille km a piedi, perché più si avvicinavano gli anglo/americani, più i nazisti spostavano i prigionieri per allontanarli dalla libertà. Giunsero ad un campo dove il pavimento era ricoperto completamente di cadaveri, nudi, bianchi. Ordinarono di “ripulire” promettendo una doppia dose di zuppa che poi era una brodaglia e che nemmeno fu data. Due di questi moribondi sussurrarono, racconta Edith Bruck, chiedendole di raccontare i fatti se fosse sopravvissuta. 
Dopo due giorni i tedeschi ordinarono di portare dei giubbotti a dei soldati di passaggio alla stazione. Seppur deboli, sia lei che la sorella non si sottrassero sperando di poter mangiare un po’ di minestra. Si misero così in marcia con 12 giubbotti ciascuno, leggeri di nailon, ma che a loro, deboli come erano, sembravano di mille chili. Quindi la sorella di Edith le disse di buttarne giù 4 e di darne altri 4 a lei. Le altre compagne in viaggio con loro se ne accorsero e Edith chiese di non dir nulla, ma non c’era solidarietà, non c’era pietà, non poteva esserci, nella lotta per la sopravvivenza.
Anche le compagne di viaggio, esauste, lasciarono cadere a terra qualche giubbotto. Il soldato tedesco accorgendosi dell’accaduto, perché la neve era oramai piena di questi giubbotti, chiese chi avesse cominciato, se no avrebbe sparato ad ogni seconda persona. Edith fece un timido piccolo passo avanti con ai piedi gli zoccoli colmi di neve e sangue. Il tedesco l’aggredì ferendola facendola cadere nella neve piena di sangue. La sorella con tutte le poche forze che aveva si avventò per proteggere Edith. Il tedesco dunque rialzandosi con la pistola in mano si diresse verso di loro che abbracciandosi pensarono di morire di lì a pochi attimi. Invece il tedesco rimise la pistola nella fondina.
Quel gesto in quel momento sembrò anche più terrorizzante pensando che potesse poi torturarle. Ma lui disse che se una “lurida” ebrea sopravviveva ad un tedesco, meritava di vivere. Per cui in tutto il percorso di 8mila metri la aiutò ogni volta che per debolezza cadeva. Giunti a Bergen Belsen non lo vide più.

Dopo un tale vissuto tutto è diverso.

La tragedia che investe una persona dopo una esperienza di tale portata non termina alla liberazione. Dopo un campo di concentramento si cambia, si porta certamente dentro la bambina che si era, ma si ha molto meno fiducia della vita e nell’umanità. Si ha paura dell’uomo che non impara dai propri errori, dai propri misfatti. L’uomo risulta incorreggibile quando percorre una strada senza via di uscita. Dopo la guerra i rapporti con l’umanità sono diversi con tutti. I Parenti, i vicini, tutti. Si viene rappresentati come i sopravvissuti. Non si è, non si può essere per gli altri solo un testimone, una scrittrice o altro. Si resta chiusi in una gabbia dove magari anche da se stessi ci si è rinchiusi. Da Auschwitz non si esce mai. E’ come restare una sorta di specie “diversa”.
Ognuno può dire anche noi abbiamo sofferto, ci hanno bombardato, abbiamo perso i nostri cari, abbiamo subito la fame, ma non si riesce a comprendere fino in fondo la gravità del vissuto dei sopravvissuti ad un campo di concentramento. Non c’è il vissuto comune di una deportazione. Persino il marito, con una sopravvissuta, risulta più delicato e vede la sua compagna diversamente, una martire, e forse solo da ultimo vede la donna. Si applica quindi un comportamento come quello che si ha con un malato. Continua Edith Bruck nel suo racconto rammentando che con il fratello, anche lui deportato, nel silenzio più totale sussisteva invece una piena comprensione.

Edith Bruck

Prima del campo di concentramento ciò che la addolorava fu il comportamento dei compagni del villaggio e dei vicini. In quel momento tutti avevano il potere più totale sugli ebrei, anche l’ultimo del paese, e fu una cosa spaventosa in quel paese agricolo, dalla civiltà contadina. Rammenta che dei ragazzini persino la fecero sedere sulle ortiche con le natiche scoperte.
Dopo la guerra non fu meglio, una volta tornati al paese furono cacciati per paura di essere denunciati ma loro volevano solo recuperare qualcosa della loro vita. Furono ritrovate nel letame, dai vicini di un tempo, delle fotografie che vennero salvate e ripulite. In quello stesso Paese Edith Bruck tornò nel 1983 per un documentario, ma confessa essere stata qualcosa di molto doloroso. Più di tutto fu dolorosa l’offesa nel villaggio da parte della gente del paese piuttosto che poi quella dei tedeschi altrettanto dura e drammatica. Ancora oggi la lingua ungherese e tedesca le fa male perché rievoca tutte le cose negative. La lingua italiana è stata per Edith Bruck invece la salvezza.

Alcuni momenti di felicità per Edith Bruck

Chiedendo poi quale potesse essere stato un momento di felicità nella sua vita, con un grande sorriso risale alla sua infanzia quando il padre le comprò un paio di stivali di gomma. In quel momento si sentì felice. Spiega che quando si è poveri anche la minima cosa regala la felicità. Rammenta poi di aver ricevuto, una sola volta, un vestito nuovo per Pasqua, fatto su misura per lei. Era rosso con dei cuoricini e indossandolo si sentiva molto orgogliosa. Sua mamma, rammenta poi, fu felice per aver ricevuto un’arancia. Spicchio per spicchio se lo gustò, e spruzzo l’aroma, schiacciando le bucce, per tutta casa.

Dopo i campi di concentramento è riuscita a recuperare una certa serenità, trovando una sorta di nido definitivo in Italia. Rammenta quando per la prima volta giunse a Napoli, e senza nemmeno capire una parola, solo dagli sguardi si sentì accolta. La musica, i panni stesi, le persone che parlavano da una finestra all’altra, la TV che arrivò nel 1954, insomma tutta quella atmosfera era calda e accogliente. Per la prima volta dopo tutta l’odissea passata, compreso il ritorno deludente in Israele, si disse qui posso vivere. Poi si spostò a Roma e in una stanza ammobiliata iniziò a scrivere seduta su uno sgabellino e poggiandosi sul baule che conteneva tutto ciò che aveva. Sopra a quel baule nel 1959 scrisse il suo primo libro, non fermandosi più da lì in avanti.