Nardo e L’Una – racconto estivo

di Annalisa Lomonaco

C’era una volta un’isola aspra e lontana, circondata da un meraviglioso mare molto spesso in tempesta tanto che i pochi abitanti erano costretti, a volte, a periodi di carestia per la difficoltà che incontravano le barche nell’attraccare con i rifornimenti. In quest’isola, solo un piccolo punto sulla carta geografica, viveva un pastorello poeta di nome Nardo.

Nardo era un bel bambino di 12 anni, scuro di pelle e ombroso di carattere. Rimasto orfano da piccolo era stato cresciuto da una nonna analfabeta, le cui sole affettuosità erano rare carezze sui capelli arruffati. Suoi compagni inseparabili ed insostituibili erano Bruto e Cesare, due cuccioli di cane, dono di uno di quei forestieri che ogni tanto capitavano sull’isola, forse pensando a lucrosi investimenti. Ma nessuno poi ne aveva mai fatto niente; tutto troppo ostico, dicevano, dagli abitanti al clima.

I due cani erano l’unico bene di Nardo, erano i fedeli compagni che lo aiutavano nel suo lavoro di badare e raccogliere le pecore. Insieme a loro, all’inizio dell’estate, si inerpicava su per quei monti dai fianchi brulli ravvivati, a tratti, da piccole radure boschive, dove Nardo cercava un po’ di frescura per sé e un po’ di pascolo per i suoi animali.

Da giugno a ottobre Nardo viveva in solitudine e, soprattutto, in silenzio. Anche negli altri mesi non parlava molto; bambini con i quali giocare e confrontarsi non ce n’erano. Gli uomini erano tutti partiti da quel posto senza prospettive, partivano da giovani e nessuno era mai tornato.

Tutti avevano sicuramente creato famiglie altrove. Qualche donna più coraggiosa aveva attraversato il mare per cercare lavoro e un’altra vita; altre, mancando d’animo o cullandosi nella speranza di un ritorno, erano rimaste. Si aggiravano per il paese queste donne senza età, vestite di scuro, avvizzite nella loro sterilità. Immagini rappresentative di una terra arida.

Questa era la realtà che circondava Nardo, senza stimoli o modelli da seguire!  Per lui non c’era un passato da ricordare, né un futuro da sognare. Così i giorni scorrevano uguali, solo il succedersi delle stagioni consegnava una nota diversa a quel paesaggio. Colori che si accendevano fra i boschi e nei campi e, a volte, quelle cime spruzzate di bianco, quella neve così strana per lui e che durava così poco.

Mai nessuno aveva visto il visetto di Nardo colorirsi di sorrisi e aprirsi in gaie infantili risate. La sua interiorità, la sua anima traspariva dagli occhi, ma nessuno sapeva leggerla.

Nessun adulto, nessun coetaneo e nessuna ragazza avrebbe mai raccolto quello sguardo trasognato, un po’ lontano, vellutato come muschio. Quello sguardo perso in sogni antichi che a volte si accendeva di bagliori improvvisi; forse memore di altri tempi e di altri luoghi.

Nardo era sempre immerso nella natura; quelle montagne e quei boschi erano stati padre e madre per lui, e per lui non avevano segreti. Conosceva i cicli e i ritmi biologici degli animali e degli uccelli di cui sapeva tutto, dai diversi tipi di richiamo che si lanciavano, fino alle stagioni degli amori.

Il pastorello attribuiva un potere magico alle manifestazioni della natura, come del resto tutti gli abitanti dell’isola. Circondati da un mare quasi sempre burrascoco, avevano come esclusivo riferimento la pioggia, la luna e le stelle, per le quali avevano un timore reverenziale e alle quali attribuivano poteri magici.

Il corpo di Nardo era un orologio che batteva all’unisono con il cuore di quella terra. Ma il suo cuore batteva per amore, per una passione nota solo a lui: L’Una.

Nardo aveva frequentato solo la prima elementare, sapeva solo scrivere il suo nome e la luna per lui era L’Una. Così la scriveva e la incideva ovunque, sul suo bastone da pastorello, sulla terra brulla, sui massi che disseminavano le sue valli, ovunque passasse scriveva L’Una.

Nardo aspettava con ansia il giorno della luna piena. Da anni, da sempre, quello era un momento magico e irrinunciabile per lui, l’unico appuntamento d’amore che avesse mai avuto. Poco prima del tramonto e con qualsiasi tempo e clima Nardo si sdraiava sul prato, in un posto sempre uguale e, con le braccia incrociate dietro la nuca aspettava che lei arrivasse.

Lui, che a malapena sapeva scrivere il proprio nome, era invece gonfio di poesia e di lirismo per questa donna incantevole che gli appariva, dai lunghi capelli argentati e dal bellissimo volto diafano.            

Quando l’ultimo lampo di sole scivolava dietro i monti, L’Una saliva lenta nel cielo e lui la guardava e le parlava inventando frasi d’amore. Nardo la guardava fissa e lei fluttuando si avvicinava offrendosi al suo sguardo, silenziosa, quieta, con un’espressione comprensiva e accogliente.  Di questo sguardo il pastorello solitario si era innamorato.

Immaginava, il piccolo poeta, di passeggiare con lei sui monti, inventando storie fantastiche; ma cosa ave raccontare Nardo a L’Una?

Le parlava di sé, di quello che provava il suo cuore fino allora inascoltato, del suo rapporto con la natura che lo circondava e di come essa non avesse ormai più misteri per lui.

Le raccontava del tempo degli amori che, sapeva, essere fondamentale per gli animali e per gli uomini ma di come quel tempo, intuiva, per lui non sarebbe mai arrivato. Di questo parlava Nardo a L’Una e lei lo ascoltava assorta e lo guardava, sempre in silenzio.

Passarono gli anni e si susseguirono le stagioni con ritmi sempre uguali. Nel paese gli abitanti erano sempre meno, l’isola stava morendo e Nardo diventava sempre più ombroso e schivo; anche la nonna morì, lasciandolo indifferente e non più solo di quanto fosse stato fino allora.

Quell’anno fu particolare, un lungo inverno a cui seguì una primavera piovosa, un’estate breve e un autunno precoce.

A fine settembre la temperatura era scesa di diversi gradi, Nardo aveva deciso di anticipare il rientro insieme alle sue pecore. Il mese prima era stato ammalato e il plenilunio di settembre non lo aveva visto, per la prima volta nella sua vita, puntale all’appuntamento con L’Una. 

Nardo volle aspettare il plenilunio d’ottobre prima di far rientro a casa per l’inverno, per cui quella sera raggiunse presto il suo solito posto. Un’aria immobile e pesante avvolgeva la montagna, nubi cariche di neve oscuravano il cielo impedendo alla luna di mostrarsi in tutto il suo splendore.

Nardo soffriva per quel cielo coperto che gli impediva di vederla. Aveva tante cose da raccontarle, doveva dirle di come era stato male il mese prima, troppo debole per rispettare l’appuntamento, troppo stanco e che aveva tanto freddo. Un gelo gli saliva dal profondo del cuore e dilagava in una solitudine mai provata prima. La notte era strana e lui temeva che L’Una non sarebbe arrivata. Forse era dispiaciuta? ma no, lei lo conosceva bene e sapeva quanto lui l’amasse.

Il freddo si stava facendo più intenso ma Nardo non si rassegnava ad alzarsi per rientrare nel rifugio e ripararsi. L’umidità gli penetrava nelle ossa, era intirizzito non riusciva quasi più a muoversi mentre la notte stava lasciando il posto ad una fredda aurora.

Era disperato, voleva e doveva parlarle anche se lei lo avrebbe soltanto guardato, muta come sempre. Ma quanto calore e quanto amore lui le leggeva negli occhi; solo quella consapevolezza lo aveva sorretto per tutti quegli anni di solitudine: sapere che L’Una lo amava quanto lui amava lei.

All’improvviso le nubi si sollevarono svelando cime imbiancate e un cielo terso dove le stelle cominciavano già a scolorire. Un vago rosato chiarore stava fluttuando ancora indefinito quando Nardo finalmente la vide ed il suo cuore ebbe un tuffo di gioia.

Lei si stava avvicinando mentre lui giaceva immobile, ormai completamente freddo e intirizzito. L’Una stava sbiadendo ma ancora avanzava, avvolta in un bianco candore,  mosse le labbra e, guardandolo sorridente gli allungò le braccia dicendogli “Addio”, poi si voltò allontanandosi mentre nel cuore di Nardo scaturivano questi versi d’amore.

Muschio il tuo volto, pallido livore,
 nell’alba appena innevata,
 e la tua voce che mi dice Addio,
e dopo, di te,
non mi resta che il silenzio.

Nardo sentì, in quell’istante, che non l’avrebbe mai più rivista, ma adesso sapeva. Per un attimo l’aveva posseduta per poi perderla per sempre.

Lo trovarono due giorni dopo, con Cesare e Bruto che, fedeli fino alla fine, gli erano rimasti accanto e guaivano piano. Raccontarono quelli del posto, per molti anni a seguire, che finalmente avevano visto il pastorello sorridere. Sorrideva, dicevano, come se avesse visto un angelo.

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