Eccolo “Bio-” il nuovo disco di Marilena Anzini che ancora una volta si manifesta con una ricerca vocale davvero preziosa. Arricchisce scritture e melodie grazie al suo ensemble vocale femminile Ciwicè e poi strumenti semplici, acusti, come l’arpa celtica di Ludwig Conistabile oppure un particolare scacciapensieri proveniente dalle steppe della Mongolia suonato da Giorgio Andreoli. E tanti altri dettagli che rendono questo lavoro uno scrigno di riflessioni e immersioni nella consapevolezza dell’esistenza e del tempo. Sempre delicatissimi gli approdi spirituali in musica di Marilena Anzini. Splendia l’intervista che segue e che vi consigliamo di approfondire come merita.

Nell’album esplori linguaggi immaginari e fonemi inventati: credi che questi strumenti possano trasmettere emozioni e significati più profondi rispetto alla parola reale?
Sì, credo proprio di sì. Se ci pensiamo bene le parole sono nate dai suoni: i nostri antenati quando non avevano ancora sviluppato il linguaggio verbale comunicavano attraverso di essi. In un certo senso in quei suoni indefiniti c’erano i semi sia delle parole che della musica, e in effetti la musica non ha bisogno di parole per comunicare e per trasmettere emozioni. Nella forma canzone, la comunicazione avviene attraverso musica e parole che però hanno un terreno comune perché la parola è cantata e quindi diventa musica anch’essa… insomma, i confini non sono così ben definiti. Quel che so per certo è che nessun messaggio scritto può veicolare tutti i contenuti che riesce a trasmettere la voce. Questo è il motivo per cui nascono così tanti equivoci e malintesi quando ci ostiniamo a voler comunicare qualcosa di importante e complesso tramite le app di messaggistica.
La canzone “Communication haze” parla un po’ di questo: intorno alle parole c’è come una nebbia fatta di aspettative, proiezioni, interpretazioni che rendono la comunicazione spesso insidiosa ed imprecisa. Ma nella stessa nebbia dei significati “non detti”, c’è anche quell’aura di suggestioni e sfumature di senso dove abita la poesia. Non a caso le voci corali nella canzone sembrano rincorrersi con delle “AH”, che è il suono che facciamo quando pensiamo di aver capito qualcosa. Quando uso i linguaggi immaginari e i fonemi, è perché voglio sbilanciarmi verso la musica che, anche se può essere meno immediato, rimane il mio canale espressivo e comunicativo preferito.

Il brano “Lezione da un seme” parla di trasformazione e ciclicità. Credi in una dimensione che si ripete, una reincarnazione?
A dire il vero no. Ovviamente nessuno può avere certezze in proposito, quindi non escludo e rispetto chi la pensa diversamente, ma preferisco credere che non esista la reincarnazione e che questa sia la mia unica vita: non voglio correre il rischio di non viverla pienamente perché attratta da presunte esistenze passate o future. Credo che in questa vita ci sia dato tutto il necessario per crescere e per risolvere, almeno per quanto ci compete, gli inevitabili problemi che dovessero presentarsi, e credo che questo lavoro porti alla ciclicità, alla trasformazione e alla rinascita all’interno di una stessa esistenza. Quando attraversiamo momenti difficili diciamo che ci sentiamo “a terra”: allora forse dovremmo proprio prendere lezioni dal regno vegetale e ricordarci che, quando siamo “a terra”, forse stiamo preparandoci a fiorire. L’importante è non aver paura di andare a fondo perché è lì che si mettono le radici; trovare il modo di germogliare seguendo ad ogni costo la poca luce che riusciamo ad intravedere; portare a maturazione ciò che si muove in noi e lasciarci trasformare, lasciando andare quello che non serve più; condividere con il mondo esterno i nostri frutti nutrienti e ricchi a loro volta di altri semi che possono contribuire a far fiorire ancora e ancora. Sono tappe di ogni processo creativo e di rinnovamento che può accadere più volte e in tanti ambiti della nostra vita.

La musica come traduce tutto questo secondo te?
“Lezione da un seme” racconta che ognuno di noi è come un seme che ha dentro un tesoro di unicità e che è nostro compito portare alla luce per rendere la nostra vita una sorta di giardino. Le voci corali si alternano tra la “U” (la vocale più chiusa che c’è, che simboleggia il seme) e la “O” (che rappresenta il suo aprirsi, il suo fiorire): la “U” e la “O” creano un gioco di chiamata e risposta che, insieme all’alternanza della tonalità maggiore e minore alla fine, trasmettono appunto questo senso di ciclicità e trasformazione. Tra l’altro nel brano suono uno strumento particolare, il ronroco boliviano, simile ad un ukulele ma con un suono più grave, che ha cinque corde doppie fatte con una bio-plastica particolare ricavata dalla canna da zucchero: oltre al legno dello strumento, anche nelle corde c’è un po’ di regno vegetale!
Parlando più in generale, tutta la musica ci mostra come tutto sia sempre in trasformazione: la musica è invisibile, non la puoi afferrare, e si svolge necessariamente sullo scorrere del tempo, cambiando note, accordi, ritmo… Lei scorre senza sosta e se la fermi…scompare! Quando finisce però ti lascia qualcosa, eccome! Qualcosa di impalpabile che resta come un’impronta invisibile in tutto il nostro essere, e che può rimanere a lungo. Alla fine anche la musica è come un seme: lei finisce, cioè in un certo senso “muore”, ma fa fiorire te…

La vocalità sperimentale presente in “Bio-” può essere vista come una metafora dell’evoluzione personale e collettiva?
Innanzitutto vorrei esprimere tutta la mia riconoscenza a Bobby McFerrin, grandissimo vocalist, improvvisatore, compositore, direttore d’orchestra e soprattutto essere umano meraviglioso. Lui per primo, con il supporto della sua Voicestra – ha portato a conoscenza del grande pubblico l’arte dell’Improvvisazione vocale e del Circlesinging, divulgandone la pratica in tutto il mondo. Anche in Italia c’è il Collettivo CantInCerchio, un gruppo di cantanti, insegnanti e facilitatori di cui faccio parte, che svolge un lavoro di ricerca e di divulgazione di queste pratiche non solo come forma artistica, ma anche come mezzo per favorire lo sviluppo umano individuale e collettivo.
L’improvvisazione attinge a quella parte di noi che è dis-armata, cioè senza armature, senza indicazioni da seguire o modelli da imitare: è completamente libera e, proprio per questo, vulnerabile. Questa parte di noi così delicata, è anche la nostra parte più preziosa e autentica, più creativa e vitale, la parte che, pur essendo unica in ognuno di noi, è anche in comune a tutti gli esseri umani nella loro matrice spirituale. Esercitarsi con l’Improvvisazione significa imparare sempre più a stare in relazione con questa nostra parte, a farla crescere e a darle sempre più spazio nella nostra vita: questo ha un effetto anche sulle relazioni con gli altri perché crea connessione, ascolto e rispetto profondo, rende più sensibili e dona senso di collaborazione e… tante altre cose che contribuirebbero non poco alla costruzione di una società migliore. E per sperimentarle può bastare anche cantare in un “semplice” coro tradizionale. Cantare insieme fa bene e guida al bene. Dovrebbero cantare tutti di più, a partire da chi prende importanti decisioni politiche ed economiche…

Gli altri strumenti scelti sono parte integranti della tua spiritualità?
Nel mio percorso spirituale uso solo la voce: amo in particolare il Canto gregoriano, una forma di preghiera che ha ancora tanto da dire sebbene sia antichissima, forse perché l’essere umano, nella sua parte più profonda, si pone sempre e ovunque le stesse domande, mosse dagli stessi bisogni.
Per il resto, direi che gli strumenti vengono scelti in base a ciò che “chiede” la canzone. “Tai Chi”, per esempio, è nata con un arpeggio di chitarra e con un andamento un po’ ipnotico ed ammaliante: questo ha dato a me e a Giorgio Andreoli, il mio produttore, l’idea del suono dell’arpa, lo strumento “magico” ed onirico per eccellenza; e così abbiamo chiamato il bravissimo Ludwig Conistabile che ha suonato magistralmente, facendo anche delle peripezie per sollevare ed abbassare le chiavette nei cambi di tonalità all’interno del brano. Con le voci femminili e il suono dell’arpa così ricco di risonanze, il sound rischiava di sbilanciarsi un po’ troppo sulle frequenze più acute, ma Michele Tacchi, bassista del progetto, ha come messo le “radici” a questo brano, andando a riempire anche la parte più grave dello spettro acustico. Michele è un bassista eccezionale ed è in grado di suonare linee di basso molto ricche ed articolate (come nel solo finale di “Tra il silenzio e le parole”, ad esempio) ma in questo brano dall’atmosfera un po’ rarefatta ha suonato quasi solo le toniche, restando sobrio ed essenziale. Si tratta di ascoltare la canzone e mettersi al suo servizio, e penso che riuscire a fare questa cosa abbia molto a che fare con un percorso spirituale: vuol dire impegnarsi per sviluppare il più possibile le proprie abilità non per gloriare sé stessi, ma per mettersi al servizio di istanze più alte ed importanti, come la musica.

Guardando al tuo percorso artistico, come senti di essere cambiata nella tua consapevolezza vocale e nel tuo approccio alla vita attraverso la musica?
Guarda, non lo faccio mai ma mi è capitato proprio qualche giorno fa di riascoltare “Audiosfera” un album registrato molti anni fa con il mio precedente gruppo Arecibo. Mi ha fatto un po’ impressione perché mi sono resa conto di quanto sia cambiato il mio modo di cantare, come suono, attitudine, fraseggio, intenzione… ma la cosa più toccante è stata riconoscere nel mio cantato ciò che stavo vivendo in quel periodo: c’è davvero un intreccio affascinante tra la musica e il vissuto, l’una racconta l’altro e si influenzano vicendevolmente. È normale che la vita cambi le persone e che la voce segua questa trasformazione negli anni, ma è anche vero che il lavoro sul canto e la voce permette di conoscersi meglio e di avere quindi più strumenti per affrontare la vita, anche nelle sue inevitabili difficoltà. Cantare consapevolmente può essere un vero e proprio esercizio di meditazione e di presenza a sé stessi e può aiutare a riequilibrare le energie più sottili come le emozioni. Ma il canto aiuta sempre e comunque, anche senza una grande consapevolezza, come dice il famoso proverbio “Canta che ti passa!”.
La cosa che mi ha reso più felice in questo ascolto-amarcord, è stato sentire quanto fossi già attratta dalle voci corali che però, all’epoca, sovra-incidevo da sola in studio. Adesso invece con le Ciwicè, l’ensemble vocale che mi accompagna in questa avventura, è tutta un’altra cosa: la voce è diventata corale, con tantissimi colori in più e una connessione che, anche qui, non ha a che fare solo con la musica ma con le vite di tutte noi e di tutti coloro i quali hanno collaborato a questo album che, non a caso, si chiama “Bio-“, cioè “tutto ciò che vive”.
Mi viene in mente una frase stupenda di Fernando Pessoa: “Sono esigente con la Bellezza, deve venire da dentro”. Ecco, guardandomi indietro, mi sembra di poter dire che ho sempre cercato la Bellezza come modalità espressiva, come condivisione con gli altri e anche come dialogo con il trascendente: questa ricerca (che è ancora in corso e lo sarà per tutta la vita…) mi ha portato ad un percorso unico ma con due direzioni, una verso il centro di me stessa e l’altra verso l’esterno, verso le tante anime belle che ho incontrato grazie alla musica.