Il caso Tandoy. Un fatto di cronaca che infiammò la Sicilia negli anni 60′! 

di Annalisa Lo Monaco

Il caso Tandoy. Un clamoroso abbaglio giudiziario dato da un Procuratore della Repubblica ottuso e bacchettone, condannò senza prove tangibili, a sei mesi di carcere e a una gogna mediatica molto più lunga, la moglie della vittima e l’amante di lei, un dirigente dell’allora manicomio di Agrigento, città dove si svolsero i fatti!

Tutto si dipana, in modo scorrevole e, a tratti divertente nonostante la drammaticità, attraverso un autore, interpretato da Gianluca Guidi che vorrebbe restituire obiettività  ai fatti, ispirandosene ma riscrivendo in qualche modo le vicende forse per fare giustizia. 
Ma i protagonisti, fatti tornare da un limbo che non ha donato loro pace, prenderanno la scena e racconteranno i fatti esattamente come si svolsero! 
 
Un divertente Gianluca Guidi, ironizzerà sulle prove portate dall’integerrimo  Procuratore, interpretato da un Giuseppe Manfridi estremamente credibile nei panni dell’accusatore.  
 
Il nostro procuratore attribuì, all’epoca, risvolti sessuali all’assassinio del Commissario Tandoy, innescando nell’opinione pubblica una pruderie che voleva nei due amanti i mandanti dell’omicidio.
 
Per fortuna una giuria obiettiva e matura non darà ascolto a chiacchiere e dicerie basate principalmente su lettere anonime. Nonostante l’assoluzione in prima istanza, il Procuratore farà ricorso in appello perdendo una seconda volta! 
 
L’aspetto interessante e innovativo è poter ascoltare brevi stralci della reale deposizione a carico dei presunti colpevoli. Stralci desunti dalle 256 pagine, redatte dal Nostro in modo totalmente soggettivo e basato solo su indizi e denunce anonime.
 
 

La visione di Michele Guardì

La vicenda si dipana attraverso la visione di Michele Guardì, autore e regista, che analizza i fatti nascosti dietro l’apparenza. Il Commissario ucciso avrà voce, in una amaro monologo che assolverà la moglie anche dal tradimento, definendo il genere umano “povere valigie di cartone”, lasciate in qualche stazione da qualche passante frettoloso.”
 
Quando i protagonisti, dopo sei mesi di detenzione e piena assoluzione, tornarono alle loro vite, lo psichiatra fece affiggere una scritta nel manicomio che dirigeva, scritta che, a quanto pare, è ancora esposta in bella vista: ” Non tutti ci sono. Non tutti lo sono”! 
 
Esplicative però, di tutta l’assurda vicenda, le ultime parole dell’avvocato difensore che, citando le “Avventure di Pinocchio” disse:” Se il burattino non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è ancora vivo!”
 
Da cercare e gustare, per chi lo avesse perso.