Un disco da leggere e da viverci dentro questo “Circles”, nuova pubblicazione per mano di Marco Zanotti e della sua Classica Orchestra Afrobeat. Uscita che troviamo e che dobbiamo raggiungere soprattutto in vinile perché si celebri a pieno questa esperienza di suono e di viaggio multi-etnico. Circolarità, l’uomo e la primigenia ragione dell’esistenza, un progetto che – come ci dirà lo stesso Zanotti – calca di nuovo la mano anche sul lato estetico, che dal suono arrivi anche la forma e non solo la voce dell’uomo. È un disco ampio di composizioni che attingono da culture assai distanti dal normale main stream pop a cui siamo abituati. Il mondo a 33 giri…

Penso di eleggere questo disco come bandiera di pace dell’umanità… se potessi e se avesse senso. Ho proprio forte la sensazione di un disco fatto dagli uomini e dalla loro cultura. Ti butto qui questa mia sensazione, assai aperta e libera… te la lascio completate e commentare…
Di sicuro non abbiamo cotanta ambizione ma grazie della sensazione. Se viene visto come bandiera di pace significa che le intenzioni da cui siamo partiti erano giuste. Ma anche che c’è evidentemente nel pubblico un bisogno di trovare una via d’uscita al sistema di guerra, odio e consumismo del nostro presente.

L’uomo è anche quello del futuro. Testimone del tempo che verrà e che cerca di anticiparlo in qualche modo. Secondo te, “Circles” fa anche questo? Secondo te anticipa qualcosa del futuro? Come si pone in tal senso?
Più che di una previsione si tratta della speranza in qualcosa di diverso da quello che abbiamo. Il futuro che impara dagli errori dal passato e riparte su un binario alternativo al nostro modello di sviluppo che è tutto tranne che circolare e sostenibile.

E dal punto di vista tecnico, il futuro, ha avuto qualche peso? Visto che, come leggo dalla presskit, immaginate di ambientare il nuovo singolo dentro una allegorica “Macchina del tempo”…
In “Cirlces”, più che nei lavori precedenti, abbiamo calcato la mano sull’aspetto estetico. Soprattutto dal vivo c’è un disegno luci molto d’impatto, vestiamo abiti di scena realizzati con stoffa grezza e corde, un amico artigiano ha realizzato per noi dei gioielli ricavati da strumenti ad ottone da buttare. Ma soprattutto, Nikki Rifiutile ha ideato e costruito una scenografia chiamata “The portal” e degli oggetti di scena (sgabelli, aste, ecc) con lamiere, ferri, ruote e tubi circolari di scarto. Lyle Doghead invece ci ha prestato la sua opera The Flying Eye come scenografia per il debutto al Ravenna Festival. Entrambi fanno parte del collettivo dei Mutoids e sì, il videoclip di “Ka munu munu” l’abbiamo girato in una maestosa opera collettiva intitolata “La macchina del tempo” al campo Mutonia di Santarcangelo di Romagna. Uscirà a breve, con la regia di Francesco Gardini.

E veniamo ai Mutoid, ai costumi e al loro intervento: che connessione ha con il disco e con il suo messaggio?
Ah, in parte ho già risposto.. Attraverso le scene e i costumi parliamo di upcycle e quindi di sostenibilità. E chi meglio dei Mutoids che del riuso creativo sono tra i più conosciuti al mondo?

Le percussioni aprono e chiudono. Il suono primordiale, la musica primordiale. Un cerchio che si chiude in qualche modo o no?
Che si chiude e si riapre di continuo, una spirale verso l’alto. E del resto la mbira, così come i canti e i tamburi di tanti rituali o preghiere, sia ancestrali che contemporanee, ci insegnano proprio la circolarità della musica.