di Anna Maria Stefanini

“Oggi le imprese non soffrono e chiudono solo per mancanza di fatturato e di capitali finanziari, ma anche per carestia di capitali relazionali e spirituali, e per un analfabetismo relazionale ed emozionale che porta a non saper più dire parole come ‘scusa’, ‘perdonami’, parole che quando mancano bloccano le imprese come e più del razionamento del credito.” Luigino Bruni; Avvenire 12/01/2013

Sembra un ossimoro ma non lo è. Per secoli abbiamo concepito le emozioni e l’intelligenza come due territori distinti, se non opposti, dell’esperienza umana. Delle prime si sono interessati gli artisti, i poeti, gli scrittori e gli innamorati; della seconda matematici, fisici, filosofi e tutta la fitta schiera dei ragionatori puri. Naturalmente non sono mancati coloro che hanno lanciato ponti fra i due continenti, Leopardi, per fare un solo esempio, massimo poeta di sempre è stato anche uno dei maggiori studiosi di astronomia del suo tempo (già a quindici anni!); ma sovente finivano per essere bollati come “genio e sregolatezza”. Nel 1995 lo psicologo americano Daniel Goleman pubblica il best sellers mondiale “Intelligenza emotiva” che segna un prima e un dopo nella storia delle emozioni. Avete presente rabbia, amore, piacere, indignazione, gelosia, paura, empatia, possesso, aggressività etc.? Per Goleman le emozioni non sono affatto quel groviglio incontrollato e incontrollabile di stimoli che governano il nostro comportamento, il lascito del primate che ci ha preceduto lungo la nostra accidentata storia evolutiva ma gli elementi di una grammatica che possono essere osservati, auto-osservati, studiati e, conseguentemente, controllati e persino governati in vista del proprio e altrui benessere emotivo. Non si deve dimenticare che molte patologie e molti delitti – vedi alle voci “femminicidio” e “stalking”- conseguono a gravi disturbi del quadro emotivo.
Parliamo allora di “competenza emotiva” come la capacita delle persone di gestire i propri stati emotivi in ragione del benessere emotivo e delle finalità. Già, perché uno sfondo emotivo positivo è condizione indispensabile per il buon fine delle relazioni umane ma anche per la riuscita delle imprese professionali. La “didattica emotiva” è la strategia di insegnamento-apprendimento che persegue lo sviluppo, negli alunni/studenti, della competenza emotiva. Se le cose stanno così possiamo apprendere l’auto-consapevolezza e l’autogestione delle nostre emozioni più o meno come possiamo apprendere la matematica, le scienze, la letteratura etc. Molti di voi a questo punto penseranno che finalmente l’umanità abbia imboccato la strada giusta; sfortunatamente le cose non sono andate così. Questo perché già dal 18° secolo l’illuminismo ha rovesciato le carte; cosa hanno fatto i profeti della dea ragione, quelli che hanno inventato la scuola pubblica? Hanno spalancato le porte delle discipline razionali (matematica, fisica, chimica, linguistica etc.) e sbattuto la dimensione emotiva nel retrobottega del pensiero e questo imprinting originario si è propagato nello spazio e nel tempo giungendo intatto sino a noi, sterilizzando le idee rivoluzionarie di Goleman. Il lascito illuministico sembra potersi ricondurre a questo subliminale principio politico: il pensiero razionale è di interesse pubblico; quello emotivo è interesse privato.
Questo spiega perché, a fronte delle poderose accelerazioni del pensiero razionale (quello che dalla ruota ci ha portato sino alla teoria della relatività), sul piano emotivo continuiamo ad interagire più o meno come i nostri antenati del paleolitico.
A questa constatazione segue un interrogativo banalmente inquietante: perché per esercitare una professione o guidare un’auto serve un diploma o una patente mentre per diventare cittadini è sufficiente l’iscrizione ad un’anagrafe? Persino l’esercizio della professione docente non richiede competenze emotive esplicite.
Riuscirà mai la politica a concepire il benessere emotivo come bene comune?