Le elezioni ai tempi degli antichi Romani

di Riccardo Bramante

Nel pieno di una accesa campagna elettorale come quella che stiamo vivendo viene la curiosità di chiedersi quali siano le similitudini e le differenze con le analoghe campagne tenute nei secoli passati, in particolare presso gli antichi Romani che sono stati maestri del diritto.

Cominciamo dalle date. Molti si sono lamentati che questa campagna elettorale si sia tenuta nel periodo estivo, quando gli italiani sono in vacanza. Invece, nell’antica Roma le elezioni si tenevano prevalentemente nel mese di luglio, quando era bel tempo e l’affluenza era maggiore.

Non vi erano i partiti che designavano loro rappresentanti, ma ciascun cittadino che aveva diritto di voto dichiarava la propria intenzione di candidarsi al magistrato che aveva le funzioni di presidente della commissione elettorale.

Come farsi riconoscere

Per farsi riconoscere, durante tutta la campagna elettorale i singoli candidati erano obbligati ad indossare una toga candida, da cui deriva il termine “candidato”, e facevano propaganda elettorale frequentando soprattutto i luoghi pubblici. In questa sua attività il candidato era sempre accompagnato da un “nomenclator”, solitamente uno schiavo buon fisionomista che aveva il compito di ricordargli i nomi delle persone che incontrava per poi sollecitarne il voto.

La propaganda veniva fatta attraverso volantini o iscrizioni sui muri (se ne trovano ancora numerose conservate sulle mura dell’antica Pompei) e ci si rivolgeva soprattutto alle corporazioni e professioni a cui apparteneva il candidato.

I temi oggetto di discussione non erano, ovviamente, quelli di politica estera e collocamenti internazionali, ma, più semplicemente, ci si limitava a promettere facilitazioni e sgravi di tasse alle categorie di lavoratori che si rappresentavano.

I tipi di comizi dell’epoca

Poi, nel giorno prescelto dagli auguri come favorevole. si tenevano i comizi (le attuali elezioni), termine che deriva da “cum-ire”, andare insieme.

Naturalmente, dati i tempi, si tenevano tre tipi di comizi/elezioni: i “comizi curiati”, riservati originariamente solo ai patrizi ma che poi, con il crescere della democrazia, andarono perdendo sempre più d’importanza.

C’erano, poi, i “comizi centuriati” riservati ai cittadini, divisi in centurie a seconda delle ricchezze possedute, che eleggevano i magistrati più importanti (censori, consolo, pretori) e infine i “comizi tributi”, inizialmente riservati ai solo plebei e poi a tutti i cittadini, che eleggevano i magistrati di rango inferiore.

Ogni “comizio” aveva il suo luogo dove riunirsi: nel Campidoglio i comizi curiati, nel Campo Marzio i comizi centuriati e nel Foro i comizi tributi.

In questi luoghi venivano erette le cabine elettorali, consistenti inizialmente in recinti di legno entro cui si andava a votare divisi per centurie e tribù. Solo con Giulio Cesare i recinti furono costruiti in muratura, i “Saepta Iulia”.

Ad ogni elettore veniva consegnata una tavoletta in terracotta (chiamata “tabella” o “testis”) su cui doveva scrivere la sua preferenza.

A conclusione della giornata elettorale il presidente dell’assemblea elettrice proclamava solennemente gli eletti con la cerimonia della “renuntiatio” e i designati entravano nelle rispettive cariche il 1° gennaio dell’anno successivo.

Concluse le elezioni, le tavolette con cui si era votato venivano gettate in un luogo determinato tanto da creare nel tempo, insieme a frammenti di anfore e di materiali edilizi, una vera e propria collina ancora oggi visibile a Roma e chiamata Monte Testaccio, proprio dal termine “testae”.